Don Adriano Gréa
Una spiritualità nel solco della
tradizione
1. CONTESTO STORICO CULTURALE del
GREA
Educato nel clima romantico della
prima metà del secolo diciannovesimo, si può dire che il Gréa sia stato
portato, quasi naturalmente, a guardare al passato cristiano della Francia con
interesse e simpatia. Durante gli anni dei suoi studi a Parigi, lo troviamo già
fortemente orientato verso il mondo cristiano antico e medioevale. Non fu lo
studio del diritto che lo impegnò soprattutto, quanto quello della Patrologia e
della storia ecclesiastica. Il Benoît ci informa che in questi anni il Gréa
lesse tutta la storia della chiesa del Rohrbacher, appena uscita dalle stampe e
che riuscì a procurarsi in seguito ad una piccola eredità; lesse i volumi editi
della patrologia del Migne e tutta la storia dei concili del Labbe. Si
appassionò per le Institutions Liturgiques di don Guéranger. I corsi alla
scuola delle carte e la tesi sugli arcidiaconi rivelano bene quale direzione
avessero preso i suoi interessi culturali. Le opere del Rohrbacher e del
Guéranger non erano un esempio di oggettività storica e di senso critico. Pur
nella diversità degli argomenti trattati, esse si proponevano tuttavia il
medesimo scopo: lottare contro le correnti gallicane, intessendo l’apologia del
papato e della liturgia di Roma. L’analisi storica vi era alterata e
strumentalizzata in vista della dimostrazione della tesi: tesi del primato e
dell’infallibilità del papa, del papato come fonte di libertà e civiltà. Tesi
della superiorità della liturgia romana contrapposta a quella gallicana,
accusata di tendenze eretiche e gianseniste. E siccome era il presente ad
essere messo sotto accusa, sia l’uno che l’altro autore, guardavano al passato
come all’epoca d’oro del papato e della liturgia. Il passato diventava
l’esemplare dell’autentica cristianità e del genuino spirito liturgico. Non si
può passare sotto silenzio l’incidenza che le lezioni dell’Ozanam dovettero
avere sulla formazione del Gréa. L’Ozanam era uno specialista di storia
medioevale. Questi, temperando lo spirito romantico proprio del suo tempo con
un costante e minuto lavoro sulle fonti, oppose al facile volterianesimo che
infestava l’ambiente scientifico, un’indagine acuta, nella quale l’ardore
apologetico, che lo accompagnava, illuminava e riscaldava la verità senza
tradirla. Lo stesso amore per il Medioevo lo troviamo anche nel Montalembert,
che tanto influsso ebbe nei "cercles catholiques" di Parigi
frequentati dal giovane Gréa. Non si deve dimenticare che a Roma nel 1856 il
Gréa ebbe occasione di incontrarsi frequentemente con l’archeologo De Rossi. Il
Gréa si formò dunque in un ambiente dove l’attaccamento alla Chiesa si
confondeva con l’esaltazione del passato. Per il Gréa gli anni di Parigi furono
anche quelli dei suoi studi teologici. Non seguì però corsi speciali. Si deve
dire che in teologia fu un autodidatta. Studiò su testi fondamentali: la Sacra
Scrittura, i Padri antichi e S. Tommaso. Il Gréa, quindi, non appartiene a
nessuna scuola teologica particolare, costituendo egli quasi una scuola a sé.
Questo prolungato contatto del Gréa con gli antichi autori cristiani, se da una
parte arricchì la sua riflessione teologica di contenuti che erano andati
perduti e che sembravano difficilmente ricuperabili dalla teologia
contemporanea, dall’altra ebbe come risultato di rendere forse troppo univoca
la direzione dei suoi interessi culturali e spirituali. Il passato, cioè, fu da
lui ritenuto come il solo depositario di ciò che era stato vero e grande nella
storia della civiltà e del cristianesimo. Il Gréa non ebbe abbastanza senso
storico per capire che in una concezione cristiana, la storia deve essere
considerata non solo come svolgimento, ma soprattutto come sviluppo e progresso
effettivo, perché "storia di salvezza" che si attua in un crescendo
continuo. Il passato costituì per il Gréa un vertice dal quale il presente era
disgraziatamente decaduto. Tale visione pessimistica della società moderna
caratterizza un po’ tutti i suoi studi. Si può quindi essere d’accordo con il
Broutin quando del Gréa afferma: "a leggerlo lo si direbbe un profeta del
passato, che vede nella sua contemplazione dei testi e dei canoni antichi la
figura ideale della Chiesa e che, nella sua ardente devozione, fatta
d’ammirazione oltre che di ricordi storici, cerca e trova una sintesi che non
tutti possono condividere"; e con Wittman quando dice: "dom Gréa è un
uomo del tredicesimo secolo che Dio ha riservato per il diciannovesimo".
Non si deve inoltre perdere di vista che l’ammirazione del Gréa per l’epoca
medioevale, era, in fin dei conti, perfettamente giustificata dall’innegabile
contributo che il Medioevo apportò alla creazione della cultura e della civiltà
dell’Europa in generale e della Francia in particolare. E questo appariva al
Gréa tanto più evidente, in quanto, la Rivoluzione del 1789 che aveva voluto
tagliare i ponti con tutto il passato, stava allora producendo gli amari frutti
del liberalismo e del laicismo. Non troviamo così nessuna difficoltà a capire
perché il Gréa, allorché le circostanze della sua vita e del suo ministero
sacerdotale lo posero di fronte alla necessità di dare una risposta a certi
problemi e a certi bisogni spirituali del suo tempo, si sia messo quasi
naturalmente ad interrogare il passato. Nella sua opera: "origines de
l’Etat: ses relations avec la religion et l’Eglise" (pubblicata come
appendice I° alla seconda edizione di De L’Eglise et de sa Divine Constitution,
Paris, 1907) sono presenti le sue tendenze ultramontaniste. La sua dottrina è
in linea con i trattati del suo tempo, i quali dovevano confrontarsi con il
"Sillabo" e l’enciclica "Quanta cura" per aver la norma
dell’ortodossia nella spinosa questione dei rapporti fra Chiesa e Stato. Stando
a quanto sopra detto è possibile, credo, affermare che il pensiero del Gréa,
pur condizionato dal suo tempo, è tuttavia ricco di contenuto, di originalità e
di felici intuizioni, che oggi si è in grado di apprezzare maggiormente, in
quanto molte di esse sono entrate nel patrimonio teologico del pensiero
contemporaneo.
2. LA SPIRITUALITA’ del Gréa nel
solco della TRADIZIONE
Il Gréa
non conosce e non predica altra spiritualità che quella della Chiesa. E
come per la Chiesa, così per il Gréa, al centro di tutto sta Gesù detto il
Cristo. La sua spiritualità è alla base di tutto il suo operare, ne costituisce
il retroterra naturale per un’autentica interpretazione, lo informa di un suo
carattere distintivo e lo riveste di una sua propria grandezza. Nel Gréa
teologia e spiritualità si compenetrano, richiamandosi l’una all’altra. Il
soffermarsi alla semplice considerazione delle forme esteriori, senza dubbio di
sapore antico, costituirebbe un grave errore di prospettiva interpretativa, in
quanto significherebbe disgiungere l’uomo dell’interiorità e della
contemplazione, qual era il Gréa, da quello dell’azione. L’opera del Gréa, come
d’altronde quelle dei suoi predecessori, non può essere capita che facendo un
passo indietro nel tempo, nel suo tempo. Anche se si possono avere delle
riserve (è facile sorridere per le sue citazioni approssimative, per le referenze
imprecise, le allusioni storiche troppo generiche, per il suo tono un po’
accattivante, ci si può trovare ricalcitranti di fronte alle rudi osservanze
monastiche) ciò, tuttavia, nulla toglie al suo lavoro di artigiano fedele, uno
dei massimi animatori della vita religiosa nella chiesa del XIX secolo. Per
l’esposizione del contenuto della spiritualità più che parlare si cercherà di
lasciar parlare il Gréa stesso attraverso i suoi scritti, in modo da non
correre il rischio, sempre possibile, di travisare più che interpretare il suo
pensiero. Questo non impedisce, di scegliere una linea di personale
presentazione che, partendo dalla Chiesa, Sposa dell’Agnello e Madre delle
anime, raggiunga il Cristo, suo Sposo, e che da Questi, quasi come effetto a cascata,
tutto della vita e dell’attività dei singoli e dei religiosi, venga ad essere
informato e trasformato, così da ricomporre il tutto in una visione unitaria di
contenuto e di significato.
3. La DEVOZIONE alla CHIESA
Il canonico Giraud, vicario
generale di Moulins, che ha conosciuto don Gréa da vicino, a S. Claude dove
soggiornò per circa quindici giorni, poi a Moulins nel 1874 e più tardi, al
momento delle grandi prove, a Sept-Fons e a casa di Mons. Penon, vescovo di
Moulins, ha scritto: "In don Gréa ho sempre ammirato, l’uomo di Chiesa,
meglio dire della Chiesa". L’espressione è eccellente. Uomo di Chiesa, in
quanto don Gréa si dedicò al servizio della chiesa; uomo della chiesa, non solo
in quanto gli appartiene, come ogni sacerdote, come ogni religioso, ma in
quanto tutto riconduceva alla chiesa, tutto considerava alla sua luce. Fu
l’occupazione permanente del suo pensare, l’oggetto fisso della sua tenerezza,
il centro della sua vita spirituale. Nel suo trattato sulla Chiesa concludendo
la prefazione così si esprime: "Abbiamo intrapreso questo lavoro a gloria
della Santa Chiesa; è verso questa, Sposa dell’Agnello e Madre delle anime, che
noi professiamo il più ardente amore". Questo testo lo si può comparare
con un altro presente in una lettera con contenuti del tutto diversi. In
questa, di colpo, senza legame con quanto precede, senza neppure completare la
frase, aggiunge: "Amare la Chiesa". In questo grido si trova
racchiuso tutto il suo cuore. Dom Gréa è l’uomo di un libro, quello sulla chiesa,
intorno al quale lavorò per trent’anni, che solo al termine della sua vita
ristampò e completò; l’uomo di una sola idea, che questo libro inserisce in una
luce al tempo stesso mistica e dogmatica; l’uomo della Chiesa, un grande
contemplativo della chiesa. "La chiesa è forse semplicemente una società
da cui gli uomini possono derivare il proprio utile in risposta ai bisogni
della loro natura? O forse, secondo una diversa prospettiva, uno tra gli
innumerevoli doni che Dio ha riversato sul mondo? O, non piuttosto, un mistero
più profondo si cela in questo sacro nome della chiesa? Tutto ci invita a
pensare che la soluzione debba essere trovata in questa direzione. Infatti, il
mistero della chiesa è il mistero stesso del Cristo. La chiesa è Cristo stesso,
è la pienezza, il compimento del Cristo, suo corpo e suo sviluppo reale e
mistico: è Cristo totale e compiuto. In questo senso la chiesa occupa, tra le
opere di Dio, lo stesso posto del Cristo; il Cristo e la chiesa costituiscono
un’unica opera di Dio. Nell’operare divino quale posto si deve attribuire a
Cristo e alla Chiesa? Suprema opera di Dio, di dignità infinita, manifestazione
suprema di Dio per la rivelazione della sua misericordia, anch’essa infinita,
questi i due poli attraverso i quali il mistero del Cristo corona e porta a
compimento tutti i disegni divini e parimenti primo compiacimento di Dio nelle
sue opere, primo decreto da cui tutto il resto dipende, principio di ogni
azione e tipo primordiale al quale ogni casa si rapporta…Tale mistero, opera
sublime e infinitamente perfetta, è necessariamente in sé unica…Dio non può
incarnarsi e immolarsi che una sola volta, e per mezzo di un’unica oblazione
compie per l’eternità ogni santificazione e ‘il mistero di Dio’". Tuttavia
riesce, nella profondità dei suoi secreti, a trovare l’arte divina di
moltiplicare ciò che resta unico, di propagare nei secoli e nel mondo
l’incarnazione e la redenzione, di distribuirli e profonderli smisuratamente
sulle strade dell’umanità, di infonderli ogni giorno ed ogni istante nel cuore di
tutti gli uomini. E per mezzo delle sorgenti sacramentali: l’eucarestia, il
battesimo e la penitenza si diffondono; questo Dio incarnato, il Cristo Gesù,
si propaga e vive in tutti coloro che non si oppongono al dono celeste, e si
estende e si moltiplica continuamente senza dividersi, sempre uno e sempre
forza unitiva delle moltitudini in Lui. Il mistero, quindi, stesso della chiesa
è questo divino propagarsi del Cristo che sviluppandosi raggiunge il suo
compimento e la sua pienezza. Il Gréa mette in connessione il mistero della
chiesa con i misteri della Grazia e della Trinità. Il mistero della divina
Agapè è il mistero stesso della vita soprannaturale: un mistero di pienezza e
di comunione, di dono totale e reciproco, in un movimento di espansione e di unità
verso la molteplicità e di ritorno della molteplicità verso l’unità. "Così
questo trattato [sulla chiesa] avrà la sua naturale divisione. Dio è il capo
del Cristo; il Cristo è il capo della Chiesa universale; il vescovo lo è della
chiesa particolare. Due grandi soggetti da studiare ed in cui sarà diviso
questo lavoro. La Chiesa universale e la chiesa particolare; e al di sopra come
tipo e origine, che regola tutti i movimenti inferiori, l’eterna società del
Padre e del Figlio, da cui la Chiesa procede, in cui ha la sua forma e il suo
esemplare a cui è associata e verso cui risale sempre come a suo centro, sua
beatitudine, suo compimento". Nella sua concezione della vita
soprannaturale il Gréa spiega che per ritornare nel seno del Padre, noi siamo
in gestazione, in travaglio, nel seno della Madre. E’ la società della Tre
Persone che chiama, assume e corona la società umana per mezzo della grazia
nella gloria. " La Santa Chiesa cattolica è il principio" e la ragion
d’essere "di tutte le cose". Del suo sacro nome ne è piena la
storia;come i primi secoli, a partire dall’origine del mondo, ne sono stati una
preparazione, così quelli che seguiranno, fino alla fine di tutto, saranno
pregni del suo passaggio: tutti li abbraccia, e unica ad ogni evento il suo provvidenziale
significato conferisce. Da nessuno di questi circoscritta, come avviene per
ogni cosa, non si ferma quaggiù. Al di là dei secoli, l’eternità l’attende per
consumarla nel riposo. E là conduce ogni speranza del genere umano, che a lei
si affida. Arca inviolabile, custode di questo sacro deposito, naviga sui
flutti delle età e degli avvenimenti, a volte agitata e sollevata fino alle
nubi dalle grandi acque del diluvio, che con il loro impeto, altro non fanno,
che spingerla sempre più in alto e più vicino al cielo. Sola raggiungerà
l’eternità, e nulla di quanto nasce nel tempo si salva e vive per l’eternità al
di fuori di essa". La devozione alla Chiesa è quindi la devozione al
Cristo, considerato nel suo Corpo Mistico. Si dirà, in seguito, come questa
vada ad innestarsi sulla devozione a Cristo, considerato nella sua umanità e
nella sua divinità. La spiritualità del Gréa, infatti, è
essenzialmente cristocentrica.
3.1 Il SACERDOZIO e la GERARCHIA
ECCLESIASTICA
Se la Chiesa è il Cristo
continuato, questi si continua soprattutto nel sacerdozio."C’è un unico
sacerdote, Gesù Cristo. Il sacerdote è la specie sacramentale di Gesù Cristo
sacerdote, come il pane e il vino, sono specie sacramentale di Gesù Cristo
vittima…L’ordinazione che riceviamo con l’imposizione delle mani da parte del
vescovo, è l’impegno nel tempo della nostra ordinazione eterna nel Signore. Vi
rendete, ora, conto di quale cosa santa si tratti e come nulla di umano vi si
debba mescolare. Come il pane e il vino, specie sacramentali della santa
eucaristia, devono essere frumento purissimo e vino genuino, così nel sacerdote
nulla di propriamente umano deve entrarvi. Tutto deve essere puro. Nessuna
vanagloria, nessun compiacimento, che dico? Il sacerdote è una cosa santa. Non
si tratta di carriera nel mondo, di impegni o lavori, dove siamo noi stessi ad
agire, nel sacerdozio non agiamo noi" Il Gréa non parla solo della
grandezza del sacerdozio, ma anche della santità per colui che vi è
chiamato:"Per essere sacerdoti di Gesù Cristo occorre una grande santità.
Gesù Cristo è mediatore di Dio presso gli uomini e degli uomini presso Dio.
Discende da Dio, rivestito della sostanza, della santità e della maestà di Dio;
per andare verso gli uomini e ricondurli a Dio si carica delle debolezze degli
uomini. Questi è il sacerdote". Da quanto detto è facile dedurre quale sia
la tremenda responsabilità che ne deriva per il sacerdote, nonché la profonda
necessità della preghiera, della mortificazione, del desiderio di compiere la
sola volontà di Dio, della rottura con tutto quanto sa di effimero e di
restrittivo: - "la disgrazia più grande per i chierici e soprattutto per
noi, chiamati alla perfezione del clericato, consiste nel condurre una vita
mediocre" - , come anche l’amore per il sacerdozio, il rispetto delicato e
vigile per l’ordinazione sacerdotale e per il carattere che questa conferisce.
Il sacerdozio è, nello stesso tempo, uno e gerarchico:"Come da Adamo e
dopo di lui nel genere umano che da questi procede vi era una gerarchia e un
ordine costituito, così c’è una gerarchia della chiesa che procede dal Cristo e
in questo propagarsi del Cristo, si estende fino a interessare le ramificazioni
più periferiche della nuova umanità, suo corpo mistico, nonché della nuova
creazione, su cui estende il suo dominio". E ancora: "l’ordine è la
riduzione del numero all’unità. Ogni opera di Dio, per sua necessità assoluta e
metafisica, ne porta in sé il carattere…Da ciò deriva che ogni opera di Dio è
essenzialmente, per conformità al suo pensiero che le concepisce nell’unità e
in forza dell’essere che loro dona secondo questo tipo, riconducibile all’unità
e costituita nell’ordine". A seguire alcuni brevi accenni per dare l’idea
di questa gerarchia ecclesiastica. Idea, che l’autore della ‘Chiesa’ ha
espresso con una sublimità e una forza altamente significative e che mettono in
risalto il suo alto senso dell’oggetto in esame e il suo profondo amore per la
chiesa, come sopra detto. Il Gréa in questo si ispira in modo particolare a S.
Ignazio di Antiochia. Tanto che nel suo trattato sulla ‘Chiesa’, non pago delle
numerose citazioni, ha messo insieme diversi testi di S. Ignazio "che
trattano del mistero della gerarchia". La dottrina e le espressioni stesse
di Ignazio spesso si trovano nella predicazione, nelle conferenze e nel linguaggio
del Gréa. Le sue riflessioni prendono avvio da: "Dio capo del Cristo.
Cristo capo della Chiesa". E continuando nella sua analisi riguardo alla
gerarchia così si eprime: "Cristo si è dato un vicario, il papa, suo
strumento e rappresentante, che per sempre in suo nome e in suo potere esercita
il governo sulla chiesa universale…unico capo della chiesa con Gesù
Cristo…vicario inseparabile di Gesù Cristo, unico pastore e capo con Cristo
Gesù che, con Cristo è l’inizio e la fine, l’alfa e l’omega del mistero della
chiesa….Il vescovo è il capo della chiesa particolare, la quale procede dalla
chiesa universale e come questa, in cui sussistono tutte le chiesa particolari,
procede dalla società divina di Dio e del suo Cristo….Il vescovo è capo della
chiesa particolare in comunione con il papa, vicario di Gesù Cristo, da lui i
vescovi ricevono il loro mandato…Parimenti il vescovo non potendo da solo
sopperire a tutte le necessità spirituali del suo popolo, ha dei collaboratori,
i sacerdoti…Ma il sacerdozio del presbitero, essendo la stesso del vescovo, è
sacerdozio comunicato, che discende dall’episcopato, istituito e fondato
nell’episcopato e che, quindi, colloca il presbitero in uno stato di essenziale
e necessaria dipendenza dal vescovo…Dopo i sacerdoti vengono i ministri
propriamente detti, i diaconi e i ministri minori: i suddiaconi e, nella chiesa
latina, gli accoliti, gli esorcisti, i lettori, i portieri". Riguardo alla
chiesa particolare e al suo presbiterio aggiunge: sempre uguale a se stessa nello
specifico del mistero gerarchico, di cui fa parte e ne costituisce l’ultima
espressione, la chiesa particolare nel suo insieme si richiama al vescovo e al
collegio dei sacerdoti, costituiti in unità. Per cui è sempre valida la bella
analogia del martire S. Ignazio: il presbiterio è quella lira sacra,
armonicamente costituita, con cui lo Spirito Santo incessantemente canta Cristo
Gesù; e, mentre nella diversità delle funzioni dei suoi membri, ciascun
sacerdote emette, se così è dato esprimersi, nella diversità delle corde di
questa mistica lira, un suono diverso e particolare, tuttavia, la divina
melodia, non ne subisce interruzione alcuna, né il susseguirsi delle epoche ne
scalfisce l’unità. La diversità dei ministeri, tuttavia, non deve mai farci
perdere di vista l’unità di fondo in cui il tutto viene a ricomporsi: "Le
gerarchie procedono l’una dall’altra: la chiesa particolare dalla chiesa
universale; la chiesa universale, in cui sussistono tutte le chiesa
particolari, procede dalla società divina di Dio e del suo Cristo…così sempre
ed ovunque in questo corpo mistico di Gesù Cristo si compie quanto detto a
proposito di questa unione: ego in eis, et tu in me, ut sint consummati in unum
(Gv. 17,23)". E questo perché: "Lo Spirito Santo è inseparabile dal
mistero delle relazioni del Padre e del Figlio ovunque queste si manifestino:
il soffio del Padre e del Figlio, che è nella chiesa universale, la pervade e
la vivifica, si diffonde fino alla chiesa particolare. E’ l’anima della sua
gerarchia, il sigillo della sua comunione. Questa è il sigillo che unisce il
vescovo al suo popolo, cioè ancora e sempre l’unione di Gesù Cristo e della sua
chiesa, e, andando a ritroso, fino alle profondità divine dove sono nascoste le
origini sacre di questi misteri, l’unione del Padre e del
Figlio"."Quale sublimità di mistero! Il Figlio è nel Padre, in quanto
suo principio; il Padre è nel Figlio, in quanto suo splendore consustanziale.
Così la chiesa è nel Cristo, in quanto suo principio, e il Cristo è nella
chiesa, in quanto sua pienezza. Così come, la chiesa particolare è nel suo
vescovo, in quanto suo principio e il vescovo è nella sua chiesa, in quanto sua
pienezza, suo splendore, irradiazione del suo sacerdozio e della sua
fecondità". Per il Gréa cosa è il sacerdozio? In un’insieme di riflessioni
ai religiosi sugli ordini sacri, del dicembre 1895 a St-Antoine, così si
esprime: "Vi è un unico sacerdote: Gesù Cristo. Come il pane e il vino
sono le specie sacramentali di Gesù Cristo vittima, così il sacerdote è la
specie sacramentale di Gesù Cristo sacerdote… Il sacerdozio non è stato
istituito direttamente per la santificazione del sacerdote stesso, ma per il
popolo. Grandvaud, che per lungo tempo era stato direttore di seminari
maggiori, mi diceva: quando un giovane mi chiede di diventare sacerdote per
santificarsi, rispondo negativamente, ma affermativamente, invece, se mi
domanda di diventare religioso. Lo stato religioso è uno stato istituito
direttamente per la santificazione personale, ma non così il sacerdozio, che è
uno stato di santità acquisito, come l’episcopato è uno stato di
perfezione".
3.2 I CANONICI REGOLARI
Questo sacerdozio e questa
gerarchia don Gréa, in modo del tutto particolare, lo vede e l’ama nei Canonici
Regolari."E’ nel cenacolo che Nostro Signore, istituendo il sacerdozio, ha
per sempre dato alla sua chiesa la vita di comunità per i sacerdoti e i leviti.
Vita di comunità che, invece di individualità operanti secondo un proprio modo
di vedere, fa di noi un solo corpo, operante in unità. " Tra il sacerdozio
e lo stato religioso don Gréa vi scopre un’ affinità essenziale e di origine.
"Nostro Signore, unico e sommo sacerdote, ha scelto di perpetuarsi nei
sacerdoti e nei chierici, magistrati del popolo cristiano, con il compito di
portare Gesù Cristo ai fedeli. Tra i due momenti il Gréa instaura una profonda
e quasi naturale affinità. Infatti, in una allocuzione in occasione della prima
messa di D. Henri, del 29 giugno 1895 a St-Antoine, così si esprime: "Tra
la rinunzia religiosa e il sacerdozio vi è una stretta, quasi naturale,
affinità, infatti se già in quanto religioso non ti appartieni, meno ancora ora
[poiché sacerdote]. La perfezione religiosa, con espressione filosofica, è
quanto si esige ed è rivendicato dal sacerdozio". La stessa profonda
affinità viene dallo stesso instaurata tra l’ordine canonicale e il vescovo
nella chiesa particolare: "L’ordine canonicale, scriveva a don Raux, 16
ottobre 1915, sarà veramente tale, solo se diocesano ed episcopale".
Sempre allo stesso, in una lettera del 21 dicembre 1912, ripeteva:
"Sappiate che la restaurazione canonicale, non rientra tra gli Ordini
Religiosi, che come tali fanno riferimento alla chiesa universale e sono
disgiunti dalle gerarchie locali, ma è un santificarsi nella vita liturgica e
di penitenza, con la pratica dei consigli evangelici, offerto e aperto al clero
delle chiese dipendenti dall’episcopato; sappiate che questa nobile opera è
voluta da Dio, quale risposta alle necessità del popolo e alle aspirazioni
conscie ed inconscie di molti sacerdoti. Questa è stata e sarà sempre la nostra
vocazione, non se ne discute…". E continua affermando che, in un certo
qual senso, " lo stato religioso ha avuto inizio con gli Apostoli e nei
secoli è continuato nei loro successori. E’ per salvaguardare la perfezione
sacerdotale che il Gréa si è dedicato alla restaurazione dei Canonici Regolari:
"Spesso ci domandano: ad quid venisti? Qual è il vostro specifico nel
mondo? Quale lo scopo del vostro istituto. Ah! Noi non siamo nuovi, ma antichi.
Noi pratichiamo la vita apostolica, noi viviamo quanto gli antichi concili
hanno emanato".
3.3 LA PREGHIERA LITURGICA
Come l’istituto dei Canonici
Regolari, così anche le osservanze, sottolinea il Gréa, "hanno un fondo di
tradizione che ci viene dagli Apostoli". E subito aggiunge, "L’opera
che ci accingiamo ad intraprendere non è un’opera particolare, quale, per
esempio il riscatto dei prigionieri, la cura dei malati, l’assistenza agli
orfani. Sono delle opere buone, sante, lodevoli, necessarie. Ma, al di sopra di
queste opere, c’è la penitenza e la preghiera. Questo è ciò che noi vogliamo
fare, questo è il nostro spirito: è lo spirito degli Apostoli". La
preghiera dei canonici regolari è soprattutto quella liturgica. "Vi sono
tre forme di preghiera. La prima è quella individuale che ciascuno fa nel
proprio intimo…la seconda è quella in gruppo, quando, cioè, i fedeli si
riuniscono per pregare…ma al di sopra di tutte si trova la preghiera della
chiesa. La chiesa prega incessantemente…essa offre la preghiera per eccellenza,
il sacrificio eucaristico, di cui l’ufficio canonico è una continuazione".
Tra i doveri ai quali "i Canonici Regolari possono dedicarsi in
riferimento alla loro vocazione" dom Gréa indica soprattutto: "per la
dignità e l’eccellenza, il culto divino, riguardo al quale S. Tommaso ha detto,
a proposito dei canonici regolari: proprie ordinantur ad cultum divinum".
Infatti "la preghiera liturgica è il più eccellente omaggio che l’uomo può
rendere a Dio sulla terra; ciò che lo diminuisce è una disgrazia pubblica, e la
sua soppressione è l’ultimo castigo con cui Dio minaccia le città: ‘farò
cessare, in questo luogo, la voce dello Sposo e della Sposa, il solenne
colloquio di Gesù Cristo e della Chiesa". "La preghiera liturgica è
la preghiera della Chiesa: è la voce con cui lo Sposo si rivolge alla Sposa. Ha
una componente misteriosa per cui viene ad essere, qui sulla terra, l’inizio di
quella che è l’unica attività degli eletti". "La preghiera liturgica
è, quindi, l’omaggio più alto che in terra l’uomo possa rendere a Dio; è da
considerarsi disgrazia pubblica ogni qual cosa ne offuschi la dignità" In
cosa consiste questo colloquio? "Dio, dice don Gréa, si canta da solo, nel
segreto del proprio essere un inno eterno, che altro non è che l’espressione
delle sue perfezioni nel Verbo e nel soffio del suo Amore. Quando nella sua
bontà e sapienza, ha creato l’universo, ha prodotto come un’eco a questo canto
eterno. Il suo canto faceva, così, irruzione nel tempo, riecheggiando
nell’armonia delle sue opere e alla creatura razionale, fatta a sua immagine,
affidava il compito di presiederlo…solo un istante interrotto con il peccato,
[questo canto] è stato elevato, nel Cristo e nella chiesa, ad una dignità ed
eccellenza incomparabilmente superiori a quella della prima condizione. Il
Cristo è il Figlio di Dio: unitosi alla sua chiesa, la introduce nell’eterna
società del Padre e del Figlio; dandole, così, non più di riprodurre, quasi eco
lontana, quel cantico che è Dio, ma sostanzialmente associandovela, la
compenetra e l’anima totalmente del suo Spirito". Una tale nozione della
liturgia spiega l’amore del Gréa per essa. Si può dire che la sua vita, e
quella che pensava fa vivere nell’istituto da lui fondato, altro non era che la
vita liturgica elevata alla sua più alta espressione: "[ l’Uffico Divino] consumazione
e fine di tutte le cose sulla terra"
"L’ufficio canonico, nella sua cadenza in ore liturgiche, è il
nutrimento preparato dallo Spirito Santo per tutto il genere umano, scriveva il
Gréa ad primo gruppo dei suoi figli che si apprestavano a partire per il Perù.
A voi spetta il compito di far risuonare la santa salmodia in quei luoghi fino
ad ora condannati al silenzio dello Sposo e della Sposa". Per rendersi
conto di questo è sufficiente richiamare alla memoria la bellezza degli uffici
a Saint-Claude e a Saint-Antoine. Si è colpiti dalla freschezza e dalla
semplicità del canto, dall’insieme armonioso con cui si svolgono le cerimonie.
Il Gréa, inoltre, si rallegrava immensamente al pensiero dello sviluppo che la
liturgia raggiungeva in paesi lontani per mezzo di nuove fondazioni. E
spingendo lo sguardo al di là della su famiglia gioiva per quanto avveniva per
la liturgia e con la liturgia. In un suo sermone per una presa d’abito, nel
carmelo di Lons-le-Saunier (1887), esaltava la gioia della carmelitana: la
gioia di appartenere a Cristo. Ugualmente applaudiva alle conquiste della
liturgia nelle parrocchie. Al rev.do Bouvet scriveva, il 10 gennaio 1877:
"Rimango entusiasta per quello che mi dite. In quello che voi fate ho la
conferma di quanto da me sempre pensato, che cioè si deve restituire l’ufficio
al popolo cristiano e il popolo cristiano alle nobili pratiche della chiesa.
Quanti sforzi per inventarsi devozioni secondarie, ed effimere, ecc.. quanto
sarebbe meglio, invece, impegnarle in questa direzione". La parola del
Gréa era la più persuasiva iniziazione alla liturgia, sia nei continui corsi
che dava ai suoi religiosi, sia negli incontri familiari, che spesso avevano
come oggetto questioni liturgiche. Poco prima di morire, don Chautard, abate di
Sept-Fons, così si rivolgeva a don Casimir: "la sua figura raggiante,
diceva, nella liturgia diventava una espressione vivente dei suoi sentimenti
profondi, e gli slanci mistici di molto oltrepassavano quanto i manuali
contenevano." Un tale fervore lo si ritrova nel suo libro La Sainte
liturgie, dove si ode, unitamente allo storico curioso e sagace e il teologo
che spicca il volo, "l’asceta per il quale tutto deve condurre all’amore
verso Nostro Signore Gesù Cristo". In questa sua opera il Gréa mette in
risalto, tra l’altro, la centralità della Messa. E l’Eucaristia viene detta il
centro e la consumazione del mistero della comunione dei santi (p. 36):
"La Messa è il momento principale di tutto l’Ufficio Divino e da cui tutto
deriva. La sua forza, penetrando in ogni movimento della vita della Chiesa,
raggiunge le ore canoniche, intimamente le unisce a sé e le vivifica del suo
essere memoria". "E’ proprio all’altare che in tutta la sua grandezza
è vissuto il mistero della Chiesa, cioè il mistero della sua gerarchia: il
sacerdote, nel quale il Cristo stesso si immola e si dona; i ministri, che
dall’altare si portano verso il popolo; e il popolo, che unendosi alla Vittima
per mezzo del sacerdote, diviene in quella e per quella una nuova
umanità". Il mistero dell’unità del
sacerdozio del Cristo comunicato al vescovo, che: "dall’episcopato scende
al presbiterato" (p.41), viene magnificamente espresso nella
concelebrazione. Il Gréa, inoltre, è preoccupato della partecipazione del
popolo alla liturgia. Partecipazione che chiama necessaria (p.50) affinché la
celebrazione liturgica abbia pienezza di significato:"La Santa Liturgia è
l’agire comune di tutta la Chiesa , cioè del sacerdote e del popolo, tanto che
il mistero di questa unità vi è sempre realmente presente con la forza
indistruttibile della comunione dei Santi". L’Ufficio Divino, come ogni
Parola di Dio proclamata nella Liturgia, è per il popolo ed in vista del
popolo: "è il banchetto preparato dalla bontà e dalla sapienza divina per
il popolo cristiano: il Verbo è nutrimento, questo Verbo, doppiamente incarnato
nella parola e nella carne adorabile, nell’uno e nell’altro suo stato, nutre,
consola e fortifica le anime". Esso non è fatto per essere letto nel
segreto di una stanza, "ma per essere pubblicamente celebrato in chiesa,
alla presenza dei fedeli, tenuto conto della loro devozione o della libertà che
le occupazioni della vita loro concedono" "è la preghiera pubblica
della chiesa; culto pubblico offerto a Dio dal popolo cristiano". La sua
stessa forma dimostra che non è stato istituito come preghiera privata,
"ma come orazione pubblica dove il canto anima la parola". Per il
Gréa l’Ufficio e la Messa , che ne costituisce la parte principale, non
possono,quindi, essere celebrati senza che tutta la Chiesa vi si associ e sia,
in modo misterioso, presente (p. 51). Voleva che tutta la spiritualità dei suoi
religiosi fosse incentrata sulla liturgia e se ne nutrisse continuamente. Che
lo scandire del tempo assumesse tutta la sua importanza da quello della
liturgia: " [il tempo] misura delle opere di Dio al di fuori di se
stesso", con le feste che lo scandiscono, permette un contatto vitale con
i misteri della Redenzione che nella liturgia ci sono riproposti come eventi
attuali. Il Gréa ha delle pagine bellissime sul Battesimo, sul mistero della
Pasqua (p.59-63), sul senso della domenica che la rende presente ogni settimana
(p. 67-68): " durante la Quaresima la Chiesa, come una madre, conosce i
dolori del parto e prepara, nei catecumeni, la posterità dei figli di Dio, che desiderano
nascere nel santo battesimo; e nel sopraggiungere della notte di Pasqua, apre
questo fonte inesauribile e celebra con trasporto incomparabile questa festa
unica per il cielo e la terra". E per sottolineare la centralità del
Mistero Pasquale aggiunge: "Le feste di Pasqua sono dunque, ogni anno,
come il centro dell’azione della grazia sul mondo. In questi giorni tutti i
misteri della Chiesa e della Salvezza per gli uomini si uniscono, compenetrano
e l’opera di Dio vi è presente", "così il cielo si rivela alla terra
e la festa solenne che è in seno a Dio, la festa della Chiesa trionfante, che
Egli associa alla sua beatitudine, si irradia nel tempo e diffonde i suoi
splendori sulla Chiesa militante in terra". Il Gréa non aveva troppa
simpatia per le devozioni moderne.
3.4 LA PENITENZA E LO SPIRITO DI
SACRIFICIO
La mistica liturgica secondo il
Gréa non può sostenersi senza una rude ascesi, uno spirito eroico, votato al
sacrificio. Questi voleva restaurare la tradizione dei digiuni e astinenze
monastiche. "Da questo mistero liturgico, diceva, primo fra tutti i
misteri, non può essere disgiunto, perché sia perfettamente santo, il mistero
della penitenza, ministero dell’Agnello immolato, per mezzo del quale a Lui
vengono unite le singole membra, come anche il popolo, per il quale (la
penitenza) costituisce una forma di continua intercessione" Preghiera e
penitenza, quindi, sono profondamente interconnesse. "Ecco chi sono i
Canonici Regolari – diceva – in una chiacchierata spirituale del 29 settembre
1893: sono uomini che nel mondo vogliono innalzare e sostenere lo stendardo
della preghiera e della penitenza". Questo modo di esprimersi mutuato dal
linguaggio militare quadra alla perfezione con il suo carattere intrepido:
"Dobbiamo nuovamente innalzare lo stendardo della penitenza, scriveva nel
1891, lo stendardo di un regolare digiuno, penitenza principale e sociale della
chiesa, che alle ordinarie mortificazioni sta come la preghiera liturgica,
nella liturgia, alle altre devozioni. Ciò facendo camminiamo in direzione
opposta a quanto richiesto dallo spirito del secolo. Amate il digiuno.
Apprezzatelo. I santi padri ne fanno un grande elogio, perché eleva l’anima,
purifica e santifica. Ma tale sarà, solo se amato". Come la liturgia,
anche la penitenza, per il Gréa assume un carattere sociale. Una tale
evangelica abnegazione è ciò che specifica e caratterizza la sua spiritualità,
e come molti altri fondatori, è vissuto, pur soffrendo, per la chiesa e nella
prova ha conservato la fede nel futuro. In ciò si rifaceva alla tradizione
degli Apostoli, che "unitamente alla preghiera, hanno lasciato nel tesoro
della chiesa, la tradizione del digiuno e dell’astinenza", continuate,
poi, nell’antichità cristiana e nel Medioevo: "Noi, ciò facendo, seguiamo
quanto già stabilito da S. Agostino. Il nostro digiuno, ricordatevelo, non è
privato, ma ecclesiale. Digiuniamo per la chiesa, perché ne siamo i
rappresentanti, la nostra penitenza è quella della chiesa. Perché la chiesa
digiuna? Perché è madre e come nel battesimo rigenera le anime degli infedeli,
nella penitenza quelle dei peccatori. Per questo continuamente si adopera a
fare penitenza. Senza la penitenza la chiesa soccombe e il clero si debilita.
Ogni santo, solo se grande penitente, è , parimenti, riuscito a lasciare un duraturo
ricordo di sé e compiere qualcosa di grande. Guardate quello che è stato capace
di fare il Curato d’Ars. Nessuno è mai riuscito a mettere in piedi una
parrocchia senza fare penitenza. Coraggio, figli miei, [pergant igitur],
pratichiamo con gioia la penitenza che eleva l’anima. Non consideriamola come
un peso da trascinarsi, ma come delle ali per volare in cielo. Seguiamo
l’esempio della maggior parte delle comunità dei canonici regolari del
Medioevo. Tutte le case dei canonici regolari in mia conoscenza lo
riprendono". E in una sua lettera alla signora Boissard, riprendendo lo
stesso tema e riferendosi alla vita cristiana, così si esprime: "Il mondo
non ha forse bisogno di penitenza…il mistero del cristianesimo non è forse un
grande esorcismo?…il principe di questo mondo sarà scacciato – ha detto Nostro
Signore – solo con la penitenza e il digiuno. La vita cristiana va sempre più
limitandosi ai soli precetti della legge naturale, quando essa, invece, deve
essere il mistero della croce riproposto da quelle membra che hanno come capo
il Crocifisso. I sacerdoti non possono predicare la penitenza, se prima,
pubblicamente, non si sforzano di essere austeri, poveri e
penitenti."Dalla stessa penna esce quasi un grido e una preghiera:
"Si semina molto e si raccoglie poco. Perché? Perché queste azioni non
sono radicate nella penitenza. La chiesa soffre di un male e questo male non è
la mancanza di attività, ma l’affievolirsi dello spirito di penitenza e di
preghiera". Don Gréa voleva che i suoi figli praticassero, anche se nella
prudenza, lo zelo per il digiuno: "Amate tutti il digiuno, anche se non lo
potete praticare. Se lo si ama, si trova sempre un modo per osservarlo.
Coraggio, proviamoci. Sforziamoci di pervenirvi. I vostri superiori vigileranno
per mantenervi entro i limiti della prudenza. Lo si amerà solo se se ne
scoprirà la forza espiatrice, santificatrice e la ricompensa ad esso connessa.
Solo se vissuto con gioia lo si potrà, con facilità, anche praticare".
Contemporaneamente, in una conferenza del 24 luglio 1895, faceva presente la
necessità di educare il popolo stesso: "La gente non sa nulla della grande
legge del digiuno, dobbiamo spiegaglielo…non sanno che il digiuno è, con la
preghiera, il grande esorcismo che scaccia il demonio. Il digiuno quaresimale e
delle veglie, è il digiuno della chiesa, come l’ufficio è la preghiera della
chiesa. Quando digiuniamo, non siamo soli: La chiesa intera digiuna con
noi". Al digiuno è necessario far seguire l’astinenza: "Non è per
comodità che è stata istituita la quaresima. – Ecco come rispose mons. de Segur
a delle persone che gli dicevano: non è divertente confessarsi – Ma non ci si
confessa per divertimento – Il digiuno non è stato istituito per comodità, ma
come penitenza…nella nostra società non si trova più neppure un briciolo di
cristianesimo. Vuole godere. Noi, invece, vogliamo conservare la tradizione che
i nostri padri ci hanno tramandato". A seguito di quanto detto assume
grande rilevanza l’osservanza della regola, le umiliazioni dell’obbedienza, le
privazioni della povertà, i sacrifici della castità, il disagio della vita
comune, la lotta contro gli assalti di una personalità invasiva e gli eccessi
dell’amor proprio.Il Gréa, inoltre, auspica che nella Chiesa si torni ad un
genuino spirito di povertà e ad una comunione di vita e di beni fra il clero.
Egli, infatti, considera il peculio e il regime beneficiario la causa
principale della secolarizzazione e della laicizzazione dei titoli e dei beni
ecclesiastici. Povertà evangelica e vita comune viste quali condizioni
essenziali per la credibilità della chiesa stessa e l’efficacia della sua
azione missionaria nel mondo. Se è necessario un ritorno alla mortificazione,
non si deve mai dimenticare che questa si fonda e deriva da una disposizione
interiore: "Immaginare d’ essere generosi non è difficile. Ma se scendiamo
nel profondo del nostro cuore, ci accorgiamo che la nostra natura vi si oppone
con delle richieste che in un primo momento appaiono innocenti, ma che in
seguito si rendono sempre più esigenti. L’amor proprio, che va alla ricerca di
se stesso, vuol farla da padrone, si insinua dappertutto…l’umiltà è il mezzo
migliore per estirparlo". E sempre riguardo allo stesso argomento così
continua: "L’io deve essere mortificato, umiliato, deve lavorare. Vorrebbe
riposarsi. E’ pigro. Scuotiamolo. L’amor proprio, è il mondo in noi che lotta
contro l’amore di Gesù. In noi coabitano due amori, due spiriti: l’amor proprio
e l’amore a Gesù. Il libero arbitrio si trova continuamente tirato da una parte
e dall’altra. Chi seguirà? Questi due amori non possono convivere, perché l’uno
viva è necessario che l’altro muoia. Quanto a noi, tutto è deciso: noi abbiamo
deciso, meglio, Dio ha deciso per noi. Il nostri libero arbitrio si è deciso
per l’amore di Dio". Altrove, con rimembranze bibliche e con spiccato
senso di realismo, aggiunge: "Non c’è amore vero e fermo se non nel
sacrificio. Lavoriamo con coraggio, sopportiamo generosamente il peso del
giorno e del caldo, cioè delle tentazioni del demonio e delle ristrettezze della
natura. Fin dal mattino il sole ci colpisce con i suoi infuocati raggi, ma il
demonio del giorno è più terribile ancora. E’ allora che bisogna resistere alle
passioni che ha acceso nel cuore dell’uomo. Senza dimenticare, tuttavia,
l’altro demonio quello della sera, quello della morte. A torto si crede che,
una volta giunti al termine della vita, non ci si debba più preoccupare degli
attacchi dei nemici. Le passioni sembra che tacciano. Stiamo all’erta…tutta la
nostra vita deve essere una penitenza". Ecco cosa dice il Gréa, riportando
un testo, spesso citato, di S. Ignazio, riferendosi alla Comunità dei Canonici
Regolari riuniti in coro "per il più importante atto della loro
vita": il culto divino: "Non si identifica questa a quella lira
divina, celebrata dal martire S. Ignazio, le cui corde, tese e tra loro
armonizzate, vibrano sotto il soffio dello Spirito Santo? Infatti, come la
corda materiale non può vibrare senza che, in certo qual modo, nell’esser tesa,
subisca violenza, così il religioso deve nella mortificazione della vita
trovare la forza della propria voce, affinché penetri il cielo e l’esercizio
della penitenza deve sostenere il ministero della preghiera per la salvezza del
mondo". In una lettera scritta nell’approssimarsi della morte di un giovane
confratello "pronto per l’eternità" , pieno di sincera fiducia e
cristiana speranza, scriveva: "per raggiungere questa luce è necessario
passare attraverso l’ombra della morte. Non dobbiamo temere, quoniam tu mecum
es. Nostro Signore e Salvatore è passato per questa ombra per liberarla dai
timori. Lui stesso, al momento dell’agonia, ci viene incontro e ce la fa
attraversare appoggiati sul suo cuore e sostenuti dalla sua presenza. Cari
figli, cari figli in Roma, non temete la morte. Accoglietela, quando vi visiterà,
perché è la visita di Dio, visita di misericordia e d’amore per ogni religioso,
per ogni anima che ama e che è rimasta fedele. Per voi prego. Con voi queste
lagrime verso, unite al rendimento di grazie e alla speranza, rendimento di
grazie per la santa certezza che questa santa morte di un mostro fratello ci
ispira".
3.5 IL SEVIZIO DELLE ANIME E LA
VITA INTERIORE
Se lo spirito dei Canonici
Regolari è "lo spirito della chiesa", "lo spirito degli
apostoli, spiritum fletus et precum" , se i canonici regolari "sono
uomini che vogliono innalzare e sostenere lo stendardo della preghiera e della
penitenza nel mondo", la preghiera e la penitenza "che sono diminuiti
dovunque", la loro opera, allora, non ha "un carattere particolare. Noi
facciamo penitenza per la chiesa come chierici, diceva dom Gréa, perché è
compito del clero. La nostra preghiera la facciamo per la chiesa",
"per il popolo". Senza ciò "non si possono salvare le
anime". Salvare le anime. Dopo il servizio di Dio, nella vocazione dei
Canonici Regolari, viene il servizio delle anime, "il servizio pastorale
presso il popolo". In una conferenza, del 20 dicembre 1893, diceva.
"a volte i santi hanno sentito il bisogno di riposarsi, ma Dio non lo ha
loro concesso…ci riposeremo in cielo. Quaggiù, con Dio, occupiamoci della
salvezza degli uomini. Dobbiamo avere uno zelo apostolico. Gesù nella stalla di
Bethleem, vedeva le tenebre dell’idolatria ricoprire il mondo intero..Egli è
venuto sulla terra per salvare…questo zelo noi dobbiamo con Lui condividere".Il
Gréa, questo zelo lo aveva e per questo, fin dall’inizio della fondazione della
sua congregazione, sognava la Cina, fondava case in Canada, Perù, in Francia,
Svizzera, Inghilterra, Italia. E aggiungeva: "Guardate quanto lavoro
rimane ancora da fare. Non si è ancora pervenuti al centro dell’Asia. Queste
immense popolazioni sono ancora mussulmane e buddiste, adorano vecchi idoli di
pietra…ugualmente in India…in Africa…nell’isola di Giava, in quella di
Sumatra…nessuno se ne preoccupa. E ancora, l’America del sud, dove sono
arrivati i padri di don Bosco: quante conversioni da fare. Non basta, però,
convertire. Bisogna fondare delle chiese. Queste popolazioni devono avere dei
vescovi e delle cattedrali, il loro culto divino di giorno e di notte per opera
dei canonici regolari e dei monaci…Ma veniamo più vicino a noi, in Europa,
centro della chiesa. Quale immenso susseguirsi di scismi e di eresie…e ancora
più vicino: in Francia, dove in alcune parrocchie non si battezzano più i
bambini. Perché? Perché non risuona più la lode di Dio, perché la preghiera e
la penitenza sono scomparse. Siate zelanti, abbiate in voi lo spirito degli
Apostoli". Un solo spirito pervade quest’uomo, quello degli Apostoli,
quello del Cristo: "Sono venuto a portare il fuoco sulla terra, e come
vorrei che fosse già acceso!" (Lc. 12,49) e suo campo d’azione è il mondo
che giace nelle tenebre dell’errore e del silenzio, in cui, sua unica
preoccupazione, possa di nuovo tornare a risuonare il canto della Sposa in
perfetta sintonia con quello dello Sposo. E’ di somma importanza per il Gréa
che l’apostolato non faccia dimenticare la penitenza e la preghiera:
"Quando cantate l’ufficio delle letture, preoccupatevi di non essere soli.
Sopra ogni piccolo campanile in territorio francese, ci dovrebbe essere una
campana che chiama il sacerdote alla preghiera. Quale forza di ripercussione è
presente in questi mezzi!…In Europa la vita cristiana vi è stata portata dalle
chiese e dai monasteri dove veniva cantato l’ufficio della notte e del giorno.
Andate a vedere in Inghilterra, in Scozia, in Irlanda soprattutto…così deve
essere in ogni dove. L’Europa sarebbe presto ritornata ad essere cristiana se
Nostro Signore non fosse rimasto solo nei tabernacoli e se la salmodia avesse
continuato a risuonare intorno a Lui". Il Gréa non si dimenticava di
pregare e di far pregare per le vocazioni: "Le vocazioni ci sono, è la
fedeltà, sono le occasioni a mancare…oggi a pranzo, ho mangiato una mela,
dentro si trovavano otto semi, otto piccoli semi. Supponete che l’albero che la
portava ne abbia prodotte altre quattrocento con otto semi ciascuna. Quanti
alberi di mele ne sarebbero potuti nascere! Ma la circostanza non si verificò.
E’ vero che ogni seme è in potenza a diventare albero, ma solo se verrà
seminato, altrimenti finirà sotto i piedi e verrà calpestato. Così accade per
le vocazioni. Dio le semina a piene mani: exiit qui seminat. Alcune cadono ai
bordi delle strade e sono portate via degli uccelli del cielo, altre vengono
calpestate, solo poche cadono sulla buona terra. Pregate il buon Dio che mandi
vocazioni e occasioni, perché il numero dei servi di Dio si accresca e che, in
ogni parte del mondo e della Francia, si sviluppi come una grande luce, luce
della salmodia che quale fiamma si elevi verso il cielo". Nei suoi scritti
e nelle sue conferenze il Gréa insiste molto sulla necessità di non separare
l’attività pastorale dalla vita interiore. Spesso per questo cita e commenta
un’espressione di uno dei suoi amici mons. Mermillod sulla "febbre delle
opere", "l’eresia delle opere", "l’eresia dei nostri
tempi". Il Gréa non voleva che: "con la scusa di svolgere del
ministero, cioè di santificarsi e di diffondersi", i religiosi trascurino
il servizio divino "come se il ministero del sacerdote abbia una doppia
faccia l’una concernente il servizio di Dio e l’altra quello delle anime per
ricondurle a Dio. Il servizio di Dio deve essere il primo e principale
impegno". In un discorso per la prima messa del R. P. Gumi, sacerdote
delle ‘Missions Etrangères’, 25 marzo 1895, St-Antoine, tra l’altro diceva:
"Nella chiesa vi sono due modi di essere: quello contemplativo con cui
entriamo in comunione con Dio e quello attivo, con cui andiamo da Dio agli
uomini… La vita contemplativa e quella attiva sono tra loro unite, vi è tra
loro come una misteriosa unione. Agli spiriti contemplativi Dio ha concesso lo
zelo e l’azione…non c’è opposizione tra queste due forme di vita…tutti i santi
hanno saputo unire l’una all’altra, l’amore per la contemplazione con lo zelo
dell’apostolato". Alla preghiera deve seguire lo studio sono. Due momenti
essenziali per il Gréa: "E’ necessario che il sacerdote abbia il gusto
dello studio: quello dei Padri, per esempio. Questo deve essere unito alla
preghiera e la deve sostenere. Solo così il sacerdote potrà trasformarsi in un
contemplativo. E’ necessario che il sacerdote sia un contemplativo…voi
acquisterete un tale spirito di contemplazione con la mortificazione…se uno non
è un mortificato, non può essere un contemplativo".
4. LA DEVOZIONE A CRISTO
Don Gréa condivideva, come tutti
i santi, il "gusto straordinario" per il mistero della SS. Trinità.
Infatti, "nel descrivere l’ordine della Chiesa e l’ammirevole disposizione
dell’opera divina in essa", volge lo sguardo "verso la gerarchia
divina" e contempla "la società del Padre e del Figlio nello Spirito
Santo". Il suo pensiero sulla chiesa lo riassume in questa formula:
"Lo Spirito Santo vive nella Chiesa; opera in lei con onnipotente
efficacia le meraviglie della sua intima attualità; informa e anima tutte le parti.
Viene nella Chiesa e vive in essa, perché il Figlio stesso è in questa Chiesa,
amato dal Padre e amante il Padre, perché attira su questa Chiesa, che è la sua
estensione e la sua pienezza, l’amore del Padre, che l’anima del suo stesso
amore; perché il mistero dell’amore del Padre e del Figlio l’avvolge e la
sostiene in una ineffabile solidarietà". Abituato a vedere Cristo nella
Chiesa, don Gréa, non dimentica la Trinità, ma la raggiunge attraverso la via
cara ai grandi spirituali: dal Cristo-Uomo al Cristo-Dio, e, per mezzo di Lui,
alla Trinità: Padre, Figlio e Spirito Santo. Ma, in fin dei conti, parla
relativamente poco della Trinità, e quando tratta di Dio, dell’amore di Dio –
in modo particolare in un discorso sull’amore di Dio, tenuto, con poche
varianti, a Saint-Pierre-de-Canon (1886) e nel carmelo di Lons-le-Saunier
(1888), a Saint-Antoine (1890), l’amore di Dio è soprattutto l’amore per il
Cristo nella sua umanità, "amore avido, generoso, eccessivo", amore
che rende Dio povero, Lui che possiede tutti i tesori della divinità, "che
fa di Lui, ricco, bisognoso di noi", che si riveste della natura umana
"degradata dal peccato e condannata alla morte"…"la prima
conseguenza di questo amore consiste nel fare in modo che Dio abbia fame e sete
di noi, quasi che noi la potessimo soddisfare". Vi è un secondo aspetto
dell’amore. Questo Cuore insaziabile, che viene alla ricerca di noi con
l’avidità di un tiranno in vista dell’oggetto del suo desiderio, è, nello
stesso tempo, generoso e liberale. Ci vuol possedere e a noi donarsi, se assume
la nostra natura è per arricchirla dei tesori della sua divinità, Deus factus
est homo ut homo fieret Deus: "Il donarsi, non è per Lui, un semplice
piacere di un onnipotente che si diverte nel prodigarsi. Nel suo abbassarsi,
l’amore non avrà piena soddisfazione se non innalzandoci e trasferendoci in
Lui. Il disegno di Dio nell’Incarnazione prevedeva, coll’incorporarci al suo
Figlio Divino, di introdurci, nella sua persona, nella società eterna
dell’adorabile Trinità e di concederci in eredità il suo Regno, divinae
consortes naturae ". Il Cristo, vivente nella Chiesa, vive in modo
particolare nelle anime dei giusti, dei santi religiosi. Questo Gesù, nostro
tutto, è per il mondo, secondo le parole di S. Leone, exemplum et sacramentum:
"E’ il mistero che salva il mondo e…l’esempio che dobbiamo
seguire…dobbiamo imitare. Gesù ci ha chiamati allo stato religioso per
configurarci alla sua immolazione. Questo è lo scopo dei misteri che celebriamo
e dei sacramenti che riceviamo. La Santa Eucaristia accende nei nostri cuori il
fuoco dell’amore divino e ci partecipa la stessa vita divina. Dobbiamo imitare
Gesù" che, "durante la sua vita e sulla croce è stato il grande
religioso del Padre". Dobbiamo imitarlo ed amarlo. "non ha bisogno di
noi, ma del nostro amore". E, quindi, in questo consiste l’essere
religioso: "Da una parte, Dio, il suo amore, la sua Provvidenza, che ci
salva dall’inizio del mondo fino ad oggi. Dall’altra, l’uomo, che risponde con
generosità. Così si instaura come una trama, come un collegamento tra Dio e
l’uomo. Noi siamo associati a Dio; Dio conduce la nostra volontà a seguire ogni
meandro della sua". Ma quale tristezza, osserva il Gréa: "Guardate
quanto poco spazio il suo amore trova nei cristiani e tra i cristiani, presso i
religiosi e tra i religiosi, nel cuore del clero e dei sacerdoti". Di
fronte a questo struggente dolore dove trovare riparo?: "nella sofferenza
e nel dolore di Gesù. Nasce nel cuore dell’inverno, in una fredda notte, senza
panni per ripararsi dal freddo, quasi a simboleggiare il freddo del mondo che
vuole riscaldare, perché è venuto ad accendere il fuoco sulla terra e altro non
desidera che vederlo ardere. Il mondo è freddo.
Si cerca di evitare l’inferno, ma non ci si preoccupa di amare. Si ha
paura, ma non si ama. Si dice: l’importante che non mi danni, e dell’amore di
Gesù, nessuna preoccupazione. Tuttavia, si trovano alcuni, quotquot, che lo
accolgono, che non gli chiudono la porta del loro cuore, che a Lui vanno
dicendo: vieni a riscaldarTi al focolare del mio cuore. Accendete, Voi stesso,
il fuoco che dovrà riscaldare le vostre membra fredde più per la durezza dei
cuori, che per il freddo dell’inverno. "Gesù entra generoso nel cuore di
colui che Gli apre la porta. Il cuore generoso, quasi come cera, si fonde al
suo avvicinarsi e in questa fusione d’amore, opera dello Spirito Santo, ci
facciamo una sola cosa con Lui, divenendo, così, figli di Dio, dedit eis
potestatem filios Dei fieri (Gv. 1,12). Ecco quanto Gesù opera in coloro che
contraccambiano il suo amore! Dobbiamo essere tra questi…Noi che, come gli
Apostoli, siamo stati chiamati: restiamo fedeli…"Modello di questa
intimità con Cristo è Giovanni. Coloro che non sono rimasti fedeli non devono
perdersi di coraggio, né ritenersi privati del Regno dell’amore! Perché Nostro
Signore ha scelto Pietro, che l’aveva rinnegato tre volte e non piuttosto
Giovanni, con Maria ai piedi della croce, per metterlo a capo della sua chiesa?
Per insegnarci che non dobbiamo inorgoglirci per la nostra vocazione, dono
gratuito della bontà di Dio. In contraccambio, ci chiede di amarlo più degli
altri. Ti ho perdonato di più, mi ami di più? Tra noi si deve instaurare una
santa emulazione nell’amare di più Nostro Signore". In altre parole,
quanti, in forza di "un grande disegno" provvidenziale, vengono
condotti alla tomba di S. Antonio, da questi si sentono ripetere: "il
demonio ha paura delle sante privazioni e della preghiera solenne, della
salmodia del giorno e della notte", ma anche subito aggiungere "ciò
che maggiormente lo spaventa è l’amore di Dio. Senza la carità, a nulla serve
tutto il resto. Ecco ciò che teme! Pertanto, ai digiuni, alla preghiera uniamo
una devozione affettuosa, ardente e devota a Nostro Signore. AmiamoLo con tutto
il cuore". In questo consiste la gratitudine per il dono della vocazione e
l’intimità con il Cristo. Devozione a Cristo, che, in una riflessione sul
vangelo del venerdì della terza settimana di quaresima, 1 marzo 1894, si
trasforma in nobile e significativa preghiera: "Gesù, Tu la santità stessa,
la purezza dei gigli d’Israele, chiedi a me, che provengo dall’abisso del
peccato, di essere rifugio per il tuo cuore. Ah! Ora, sì, mi rendo conto del
tuo mistero d’amore. A me misero, Ti rivolgi per chiedere aiuto, ma posso io
esserti di sollievo, posso io rinfrancarTi con il mio amore! L’amore esige una
qual uguaglianza tra le persone, altrimenti è come se il debole si presentasse
al forte per ottenere protezione. Nel tuo caso, però, tutto viene capovolto.
Tu, il Santo, chiedi aiuto ad un misero peccatore; Tu, l’Onnipotente, domandi
amore ad un fragile fuscello. Ebbene, Te lo concederò senza remora alcuna.
Eccolo: ‘Hodie’. Ho udito la tua voce. Ti offro il mio amore, tutto a Te mi
dono, tutto prendi, nulla mi riservo, a me basta che ogni istante della mia vita
solo trascorra nell’amarTi. Che solo Ti ami e questo basti a riempire la mia
vita". Un tale amore per il Cristo, che fa che, l’amante, viva di Lui, per
Lui, e ami ciò che Egli ama, il Gréa, si compiaceva ripetere, può solo
scaturire dai sacramenti, soprattutto dal sacramento dell’Eucaristia, che è
"il sacramento di tutti i sacramenti, il sacramento per eccellenza",
per mezzo dal quale "Cristo Gesù si propaga e vive in coloro che non
rifiutano il dono celeste, si propaga e si moltiplica senza dividersi, sempre
uno e sempre forza unitiva delle moltitudini in Lui". Per il Gréa la santa
messa "è la parte principale di ogni servizio divino e a questo dona tutta
la sua dignità e la sua forza soprannaturale". La comunione eucaristica,
anche quella quotidiana, restava, sotto l’influsso di mons. de Segur, una delle
maggiori preoccupazioni del nostro: "Ogni giorno umilmente e devotamente,
comunicate alla sorgente della grazia, della santificazione, dell’umiltà e
della dolcezza, della povertà, della castità e dell’obbedienza; andate e questo
è quanto basta". "Nella comunità del Gréa, la comunione quotidiana
era la norma, anche per i piccoli oblati, diversi lustri prima del celebre
decreto Tridentina synodus di Pio X". A seguire un brano di una lettera dove
il Gréa, esprimendosi in un perfetto stile scolastico, già di per sé conciso,
abbandonandosi in una delicata effusione di tenerezza, ci svela la sua profonda
e amabile convinzione della nostra unione in Cristo:"Cari figli, cerchiamo
di supplire alla distanza dei corpi con l’unione in Cristo. Viviamo, in questo
ubi eucharisticum offertoci dalla fede, che ci fa superare l’ubi
circumscriptivum dei corpi e l’ubi definitivum delle anime. Noi formiamo un
tutt’uno, inseparabile, in forza di questo meraviglioso ubi della santa e
divina comunione. E’ là, quindi, che ci diamo appuntamento, quale anticipazione
dell’eterno incontro nel cielo. Cari figli, come a Dio è piaciuto unirci nel
suo amore, così amiamoci gli uni gli altri". Il Gréa, quindi, con il suo
spirito di fede, il suo amore per la preghiera e la penitenza, la sua ardente
carità, qualità proprie degli amici di Dio, può ben essere considerato non solo
quale uomo di chiesa, come sopra detto, ma anche quale uomo di Dio, nel
significato che questo termine assume presso i profeti dell’antico Israele.
5. LA DEVOZIONE ALLA VERGINE E AI
SANTI
Dio tutto ci ha donato per mezzo
di Maria, poiché per suo mezzo ci ha donato Cristo:"Come Dio ci ha donato
il suo Figlio unico per Maria, è per Maria che tutto abbiamo ricevuto". E
ancora "Gesù ci vuole là dove Egli è, ma, prima di introdurci con Lui
nella gloria del Padre, vuole che con Lui abitiamo in quella della madre".
Il Gréa non dimentica la profonda connessione che c’è tra Maria e la Chiesa:
"La Chiesa è la sposa; Maria è la madre. E’ Maria che deve formare e
preparare la sposa del Figlio". In un momento particolarmente felice della
sua riflessione e profondamente pieno di significato così continua:"La
madre e la sposa: il sacrificio che Nostro Signore ha offerto sulla croce non è
solo oblazione dell’umanità concepita nel seno di Maria, ma essendo questa
umanità compendio della creazione, una tale oblazione diviene oblazione
dell’intera opera di Dio. Due sono le persone per mezzo delle quali questa
opera di Dio si riannoda a Cristo: Maria e la Chiesa, Maria sua madre e la
Chiesa sua sposa. Era necessario, dunque, che Maria e la Chiesa fossero
associate al sacrificio di Gesù. Per la Chiesa ciò avviene lungo il corso dei
secoli nei martiri…nei santi che vengono immolati…e ancor più profondamente per
mezzo della santa comunione, che, unendo la carne del cristiano a quella
immolata di Gesù e facendola partecipe dei frutti della passione, con Lui la fa
morire e insieme risorgere. Questo si verifica per la Chiesa, ma anche Maria
deve essere offerta. Infatti è lei che donando a Gesù un’umanità, le dona la
materia per il suo sacrificio, ma donandola a Gesù, la dona anche alla
Chiesa…Gesù nel suo sacrificio presenta al Padre quanto ha di più caro: sua
Madre e la sua Sposa. Una tale necessità di sacrificio non ci deve stupire.
Gesù, trascinando in questo suo sacrificio la Chiesa, nello stesso tempo,
purifica e prepara la Madre…avendo preferito nascere dalla nostra stessa
stirpe, [quella di Adamo] era necessario che il suo sangue, risalendo fino alla
sorgente, purificasse anche la madre…la vita di Maria è un insieme misterioso
ed ineffabile di dolori e di gioie…Maria è madre della Chiesa. In Gesù che si
offre per la Chiesa, è Maria che si offre per lei. Per questo, con espressione
ardita, ma non affatto contraria allo spirito della chiesa, possiamo dire che
Maria è stata associata all’opera della Redenzione: Gesù Redentore, Maria
Corredentrice, la nuova Eva da Dio collocata accanto al nuovo Adamo, non solo,
ai piedi della croce sul Calvario, ma in ogni istante della vita…Maria ha
generato senza dolori Gesù nella gioia del Natale e generato noi ai piedi della
croce nelle sofferenze del Figlio suo Gesù". Altrettanto profondo legame
il Gréa instaura tra la devozione a Maria e quella a Cristo. "Ricordatevi che
la devozione alla Vergine è la misura della pietà che noi abbiamo per Gesù
Cristo e Dio. Chi non ha la devozione per Maria, non l’ ha per Gesù…perché
Maria è la Madre del bell’amore…la madre della pietà". Ritengo sia
opportuno, a questo punto, riproporre anche una significativa e filiale
preghiera con cui il Gréa terminava alcune sue considerazioni in occasione
della festa di S. Giovanni evangelista, il 27 dicembre 1893:"Che la S.
Vergine, a noi data come Madre, in S. Giovanni, diffonda sui sacerdoti e su
tutti noi lo spirito di Gesù, lo spirito di S. Giovanni, lo spirito di
preghiera. La preghiera è una montagna da scalare, abbiamo un peso da
sollevare, il peso della nostra debolezza. Lottiamo, scaliamo coraggiosamente i
pendii della via della preghiera". Il Gréa predilige i santi dei tempi
passati, soprattutto quelli di epoche più lontane e nei loro scritti, come
nelle loro biografie, vi cerca esempi e lezioni di vita. "Eleviamo il
nostro sguardo verso coloro che hanno messo in pratica questa legge [la legge
delle Beatitudini]…seguiamone gli esempi. Non sono solo i testimoni delle
nostre lotte, ma ci spronano con il loro esempio, su noi fanno discendere le
grazie di Dio, essendone i dispensatori. Camminiamo, spinti dal loro esempio e
fortificati dalla loro intercessione, fino a raggiungere la meta". Cosa
vuol dire per il Gréa essere santo?"Le diverse forme di vita religiosa in
cui si esprimono queste grandi famiglie di eletti [gli istituti religiosi] sono
chiamate misteriosamente a riprodurre in loro e per mezzo di loro nella chiesa,
le molteplici caratteristiche dell’un
ico e divino modello di ogni
santità. In questo provvidenziale e divino disegno ogni istituto ha un’alta e
sublime missione da compiere [oltre quella esteriore], quella che si riferisce
a Gesù Cristo stesso e cioè di riprodurre sempre più adeguatamente il volto e
la vita di Cristo nella chiesa…è destinato a realizzare, su questa terra, il
definitivo compimento dell’azione divina. Ogni istituto religioso vive, in
questa grande e profonda opera di santificazione, un suo misterioso e singolare
destino…e tutti insieme concorrono a riprodurre nella chiesa la perfetta
immagine di Gesù Cristo, modello di ogni perfezione". Sempre in
quest’ottica , parlando dello stato religioso e del posto che esso occupa nella
chiesa, aggiungeva: "Lo stato religioso è un professare in modo visibile
la perfezione cristiana…non oltrepassa gli impegni battesimali, ma dà loro
compimento perfetto e pieno. Lo stato religioso è di per sé uno stato di
perfezione e di santità cristiana". Quasi non pago di queste sue
riflessioni e sempre preso dalla sua visione teologica d’insieme, che sola può
garantire, nella diversità di attuazione, un’unità di origine, così
continua:"Nella chiesa cosa si deve intendere per santità? E’ il fluire
della perfetta carità da Dio all’uomo, realizzato dal mistero della Redenzione.
E’ la perfezione dell’amore nel sacrificio totale. Dall’accettazione del
sacrificio e della morte scaturisce il frutto della santità della chiesa. Dio
ha amato l’uomo fino a morire per lui, si è consegnato alla morte per l’uomo…la
chiesa, a sua volta, risponde a questa provocazione dell’amore con una risposta
di morte. Anch’essa ama fino alla morte… Raggiungono la santità solo coloro che
per mezzo di un morire spirituale si distaccano dal mondo e da ogni oggetto
terrestre e perituro. Quindi, poiché ogni cristiano è chiamato alla santità, il
battesimo, in cui la chiesa tutta si trova immersa, comporta per ogni fedele
l’impegno a questo morire e per mezzo di una mistica sepoltura, ne ripropone il
mistero (Rom. 6, 1-14)...La santità, in certo qual modo, si identifica con lo
stato religioso; consistendo l’essenza di questo nell’essere professione
pubblica di santità, e essendo la chiesa, per se stessa santa, è tutta chiamata
a questo stato, e tutta, un giorno,vi perverrà (Ap. 21,2)". Concludendo:
tutta la spiritualità del Gréa può essere racchiusa in queste parole: preghiera
e sacrificio, con Maria, per amore del Cristo e della Chiesa, suo corpo
mistico.
6. Una SPIRITUALITA’ all’insegna
dell’UNITA’
Tutta la spiritualità del Gréa
viene a costituire un tutt’uno armonico e coerente, che deriva la sua interna
unità nell’unità e nel fine della Redenzione: la Chiesa e la Liturgia. Chiesa e
Liturgia che nel Gréa formano un binomio inscindibile, che lo ha impegnato per
tutta la vita, durante la quale ha solo cercato di mettere in pratica quanto
era frutto della sua contemplazione e del suo studio. Don Gréa
nell’introduzione del suo libro sulla Chiesa, citando un passo di S. Paolo
della lettera ai Corinzi, per sostenere quanto vuol dimostrare, ne trae tutte
le conseguenze: "poiché il mondo non aveva conosciuto Dio nelle opere
della sapienza e della potenza (cioè: nella creazione degli angeli e degli
infiniti astri, nella creazione dell’uomo e del paradiso terrestre), Dio si
compiace salvarlo con la divina follia della sua misericordia" (cioè:
l’Incarnazione del Figlio, la sua immolazione sulla croce, l’applicazione di
questa Redenzione agli eletti per mezzo della liturgia: sacrificio e sacramenti
e per opera della Chiesa, madre dei suoi figli). E a conclusione delle
conferenze sulla Settimana Santa continua con queste esemplari chiarificazioni:
"Così, in questa nuova opera Dio, rivelando quanto in Lui vi è di più
profondo e aprendo gli abissi della sua tenerezza e della sua bontà, si
manifesta trasportato dall’amore e tutto compie con grande profusione…Questo
mistero, opera totalmente e infinitamente perfetta, è in se stessa
necessariamente unica…Dio non può incarnarsi o immolarsi che una sola volta e
"con un’unica oblazione, per l’eternità , porta a compimento ogni
santificazione" e "il mistero di Dio". Tuttavia nella profondità
dei suoi segreti , scopre l’arte divina per moltiplicare ciò che è uno, di
propagare nei secoli e nel mondo: l’Incarnazione, il sacrificio e la
Redenzione, di prodigarli e di riversarli a dismisura sulle strade
dell’umanità, di portarli, ogni giorno e in ogni ora, nel cuore degli uomini. A
questo è chiamata la Chiesa per mezzo della Liturgia." L’Incarnazione e la
Redenzione, si propagano attraverso i canali dei sacramenti, per mezzo del
Battesimo e della Penitenza, e, così, questo Dio incarnato, il Cristo Gesù, si
propaga e vive in coloro che non ricusano il dono celeste, si estende e si
moltiplica senza dividersi, sempre uno, e sempre ricomponente le moltitudini in
Lui". Questo divino propagarsi del Cristo che lo sviluppa e Gli dona
compimento e "pienezza", costituisce il mistero stesso della chiesa:
"e come da Adamo e dopo di lui nel genere umano che da lui procede vi era una
gerarchia e un ordine costituito, così c’è una gerarchia della Chiesa che
procede dal Cristo e, in questo propagarsi del Cristo, si estende fino ad
interessare le ramificazioni più periferiche della nuova umanità, suo corpo
mistico, nonché della nuova creazione su cui estende il suo dominio". A
questo si può volentieri, in una grandiosa visione d’insieme del piano divino,
far seguire un altro passo: "La Santa Chiesa quaggiù viene a contatto con
gli elementi di questo mondo, destinato a perire con tutto l’ordine del vecchio
uomo, quando i disegni di Dio sugli eletti saranno compiuti; in questi elementi
sceglie la parte di Dio su questa natura che è opera sua; ne trae la materia
dei sacramenti e oltre ai sacramenti serba al servizio di Dio e stacca dagli usi
profani una porzione scelta, quale primizia delle creature; poi servendosi
delle cose create, divenute sacre, fa ascendere verso Dio l’odore del
sacrificio e la voce della preghiera"."Il vecchio uomo – infatti –
sarà lentamente assorbito e in tutti distrutto, "perchè, come dice S.
Paolo, ciò che è mortale venga assorbito dalla vita (2 Cor. 5,4). Il Cristo nel
suo Corpo mistico divora, si può dire, questa mortalità; prende gli elementi
infermi, se ne nutre, li assimila, e ne forma sue membra con una nuova e
immortale vita che loro comunica. Ma, sia che consideriamo l’angelo, sia che
consideriamo l’uomo, la Chiesa ci appare come la consumazione finale a cui
tutto deve tendere e compiersi. Così viene confermato quanto da noi detto
all’inizio del nostro discorso, che costituendo essa con il Cristo una sola
cosa, il suo corpo e la sua pienezza, è con il Cristo l’inizio e la fine,
l’alpha e l’omega, lo sguardo primordiale ed ultimo di Dio in tutte le sue
opere, e l’unità che le riunisce e le rende tutte infinitamente degne del suo
eterno compiacimento". Prese nel senso sopra esposto, le parole
"Redenzione, Messa, Liturgia" sembrano, quindi, assumere lo stesso
significato: suprema glorificazione di Dio, per mezzo della misericordia,
salvezza del genere umano. Compendio di ogni santificazione e fine di ogni
spiritualità.
TRACCIA per una SPIRITUALITA’
DIOCESANA
Credo, che partendo da quanto
sopra esposto riguardo alla spiritualità del Gréa e mutuando da alcune sue
intuizioni sulla chiesa, sul sacerdozio, come dalla realtà di un popolo
convocato all’ascolto della Parola, sia possibile proporre una traccia per una
spiritualità diocesana. Problema oggi particolarmente sentito e criticamente
studiato. La spiritualità diocesana è nativamente e radicalmente segnata dall’appartenenza
ad una chiesa particolare, che cammina in un determinato spazio-tempo, in una
determinata cultura, secondo una certa tradizione, che alimenta alcune forme
piuttosto che altre. Essa si realizza prima di tutto e soprattutto nella
partecipazione alla vita cristiana della comunità locale: parrocchia e diocesi,
in tutte le sue molteplici forme di attuazione, diverse da luogo a luogo. Date
queste premesse, si deve affermare con decisione che ogni chiesa particolare è
portatrice di una forma originale dell’unica spiritualità cristiana. Per il
sacerdote la prospettiva di una spiritualità diocesana comporta un notevole
spostamento di accento: non è più sufficiente un generico buon esercizio del
proprio ministero come fonte e forma della propria spiritualità sacerdotale, ma
occorre un’identificazione e un coinvolgimento nella vita di fede della propria
chiesa particolare, a partire dalla convinzione, che la spiritualità di un
sacerdote diocesano è quella della sua chiesa, al servizio della quale è stato
posto. Quanto al presbiterio esso va considerato non come la somma dei
sacerdoti che fanno parte di una diocesi e che il vescovo ha a disposizione per
servire la sua chiesa, ma come un corpo, dove coloro che ne fanno parte sono
membra gli uni degli altri. Il presbiterio ha comunque il volto storico di
quanti ne fanno parte, con la loro storia, la loro vita, il loro ministero.
Condizione essenziale per edificare la chiesa particolare risultano l’unità e
la comunione presbiterale.Questo comporta una conseguenza di capitale
importanza per la spiritualità diocesana dei ministri ordinati: l’unità con il
vescovo e l’unità dei presbiteri tra loro non è un optional, un buon consiglio
perché è meglio andare d’accordo che non andarci. E’ condizione fondamentale
della loro identità: è presupposto ineliminabile del loro ministero. Elementi
per una spiritualità diocesana: Per i ministri ordinati si dovrà scavare sul
nesso tra sacramento dell’ordine ricevuto e struttura della chiesa di cui sono
a servizio, per dedurre da questo rapporto una proporzionata impostazione di
convinzioni, parametri, orientamenti, scelte ed azioni. Sempre su questa base
teologale va impostata la definizione dei ruoli fondamentali nella chiesa;
finché tra laici, consacrati e ministri ordinati sono scarse l’integrazione e
l’armonizzazione, non si può parlare di spiritualità diocesana: ogni chiesa
particolare ha bisogno di esprimere, anche nel suo funzionamento interno,
quella santità di tipo oggettivo che riceve come sposa di Cristo, senza macchia
e senza ruga. I ruoli nella chiesa non sono paragonabili alle mansioni di
qualunque altra struttura sociale, ma sono costitutivi della compagine della
chiesa stessa, perché non solo la esprimono, ma la costruiscono nella loro
qualità di membra specializzate di un organismo vivo, ciascuno per la sua
parte; questa armonia non è soltanto accorgimento tecnico-pastorale per
ottenere migliori risultati (spirito di squadra), ma è soprattutto il riflesso
di una chiesa che acquisisce una somiglianza sempre più marcata e ardita con la
comunità trinitaria. Molti disagi che le diocesi patiscono derivano da una
situazione in cui non c’è un giusto equilibrio nella distribuzione del carico
di responsabilità ecclesiali che ministri ordinati, laici e consacrati hanno
nei confronti della chiesa e della salvezza; ad esempio: rimane sterile una
spiritualità diocesana che non coinvolge sufficientemente i laici che, per
natura, sono i più capaci di darle caratterizzazione territoriale, perché
confrontano la realtà cristiana con l’ambiente dove si vive: famiglia, scuola,
lavoro, politica, economia, cultura ecc. E’, fuor di dubbio, difficile trovare
il punto di equilibrio tra i fattori che teologicamente definiscono una chiesa
particolare (e la rendono teologicamente identica a tutte le altre) e quelli
che ne determinano l’identità di un popolo di Dio in quel luogo (e la rendono
diversa da tutte le altre); ma è importante, perché, se le chiese particolari
diventano tutte uguali in senso sociologico, diventano insignificanti per il
territorio su cui esistono, perdendo così l’essenziale rapporto con il popolo;
ma se esse spingono eccessivamente la loro particolarità, si frantumano,
rischiando di perdere quelle caratterizzazioni che le rendono chiesa. Più in
generale credo che si debba maggiormente sottolineare, per una solida
spiritualità diocesana, il profondo e necessario rapporto tra il vescovo e il
suo popolo: infatti il vescovo offre alla chiesa particolare le
caratterizzazioni teologali, mentre di per sé non è in grado di coagulare nella
sua persona le istanze locali, anche perché di solito proviene da realtà
diverse ed è quindi portatore di esperienze fatte altrove; il popolo, invece,
porta in dote alla propria chiesa tutte quelle caratterizzazioni che derivano
dalla sua storia, dalla sua psicologia collettiva, dall’esperienza e
consapevolezza del proprio divenire, tutte cose che le danno una fisionomia
particolare, a condizione però che siano realmente capaci di mediare nella vita
contingente le grandi e assolute realtà cristiane. In tutto questo può esserci
di guida il grande vescovo Agostino, il quale, pur nutrendo un grande timore
per il fatto di esser vescovo, tuttavia si rallegrava sommamente per il fatto
di essere cristiano: "Mentre mi atterrisce ciò che sono per voi, mi conforta
ciò che sono con voi. Per voi sono vescovo, con voi cristiano. Quello è un
titolo di un incarico ricevuto, questo un titolo di grazia; quello è una fonte
di pericoli, questo la fonte della salvezza". E ancora: "Da questa
cattedra siamo per voi come maestri, ma siamo condiscepoli con voi sotto
quell’unico Maestro". "Vi do un nutrimento di cui io stesso vivo,
metto sulla tavola gli alimenti di cui mi sazio io stesso. Io sono un ministro,
non il padrone di casa".